Filippo Bacciu - Vescovo di Ozieri

  

Il Perdono

Gesù dice: «Orate pro persequentibus vos», non dice: pregate perché la persecuzione non venga. Suppone la persecuzione già in atto, inevitabile e presente. Pregate per coloro che vi perseguitano. E’ il precetto oltre il quale non è possibile ulteriore perfezione. Facendo così, dice il Signore, siamo figli del Padre che è nei cieli. Gesù per primo ne dette l’esempio sul duro legno della croce nel momento stesso in cui, fra atroci spasimi subiva il calvario.

«Pater, ignosce illis, nesciunt quid faciunt» è il grido supplichevole del Figlio sospeso fra cielo e terra, confitto nell’infame patibolo, innalzato dall’odio della plebe, irriconoscente del bene ricevuto.

Padre perdonali perché non sanno quel che fanno.

Il primo martire Santo Stefano si regolò in modo perfettamente eguale. Dal dolore e dal perdono di Gesù ha avuto origine la nostra redenzione, mentre dalla lapidazione e dalla preghiera di Stefano è sfavillata la luce eterna dei cieli che ha suscitato la fede di San Paolo.

II santi, i martiri, i veri cristiani, han seguito sempre, anche sotto i colpi del carnefice, gli esempi di colui cha fa scendere e piovere Ia luce del sole e la pioggia sui campi dei buoni e dei cattivi. Solo i reprobi si lasciano intossicare dall’odio, dalle ripu­gnanze, dalle ansie di viltà e di vendetta.

Siamo nella valle di lagrime di un povero mon­do terrestre, e non in quello celeste.

Al tempo del pontificato di Innocenzo X, il potente cardinale Panciroli, e la potentissima Donna Olimpia Maidaichini, per motivi personali che sfuggono alla nostra indagine, si scagliarono contro San

Giuseppe Calasanzio che era la santità in persona.

Tutto cospirò a creare intorno a lui la diffidenza dell’Autorità Suprema.

Già sotto Urbano VIII, che l’aveva nominato a vita, fu deposto dal Generalato, e trasferitane l’autorità nel meno degno dei suoi religiosi, P. Mario Sozzi. Già per falsa denuncia di costui presto però riconosciuta per tale, era stato, sia pure per poche ore, condotto, pubblicamente e trattenuto come prigioniero al Sant’Ufficio. Così il santo vecchio di 86 anni, digiunò dal giorno avanti, sul mezzogiorno, sotto il solleone, per le vie più popolate di Roina, a piedi fra gli sbirri, fu condotto a quel tribunale.

La falsa e calunniosa imputazione fu d’aver sottratte dalla stanza di quello sciagurato alcune carte spettanti al Sant’Ufficio.

Invece le carte erano state prese, perché occorrenti al disbrigo di certe pratiche in corso, dal cardinale Cesarini, Protettore delle Scuole Pie.

Questi informato dell’accaduto e della cattura del Calasanzio, mandò i suo Adiutore a giustificarlo, lo fece liberare e ricondurre a casa la sera stessa, quasi in trionfo, nella più bella delle sue carrozze.

Il Santo ebbe a dire ad alcuni suoi intimi che durante il suo penoso martirio s’era consolato pensando a Gesù, il quale per un tradimento d’uno dei suoi, era pure stato catturato e fatto prigioniero.

I trionfi dei santi, durante la loro vita terrena, non possono essere che passeggeri. La loro razione quotidiana è il dolore, e la loro bevanda il pianto, sicché ognuno di loro può dire col salmista: «potum meum cum fletu miscebam».

Anche San Francesco d’Assisi ebbe a soffrire delle amarezze non indifferenti da parte di chi avrebbe dovuto sentire il dovere dell’obbedienza, del rispetto e della venerazione.

Dopo brevi giorni nell’eremo della Verna, se ne andò alla Porziuncola. E furono giorni tristi quelli che vi passò: più tristi per dolori morali che per le sof­ferenze fisiche, le quali pure non erano lievi.

Frate Elia e con lui alcuni ministri provinciali, minavano sordamente l’opera del serafico Santo, e tentavano un’evoluzione verso ambizioni rimaste fino allora sconosciute nell’ordine, e specie verso un attenuamento a quella condizione di assoluta povertà imposta dalla Regola.

Di qui ebbero origine divisioni. scissioni e governi speciali.

San Francesco si dolse amaramente di questo travisare la sua idea ed ebbe giuste parole di amaro rimprovero.

Negli ultimi giorni di sua vita posò la destra sulla testa di un frate genuflesso accanto al suo lettuccio. «Su chi poso la mia destra » domandò perché non vedeva quasi nulla. «Sulla testa di Elia» risposero. «Bene, Soggiunse: figlio mio, ti benedico in tutto e per tutto: ti benedico per quanto posso e più che posso, Colui che può supplisca a quanto non posso io...».

Quando frate Elia, scomunicato reietto, espulso dall’Ordine, tornò finalmente a resipiscenza, nei giorni del pentimento dovette riecheggiargli in cuore, come una musica solenne e lontana, ma dolcissima nella sua tristezza, questa benedizione del padre, il quale nel dargliela, pur conoscendo quell’allontanarsi di lui dal vero spirito francescano di umiltà e povertà, che tanto lo aveva afflitto, intendeva di ricompensare l’immenso affetto che l’anima ardente ed impetuosa del suo vicario generale gli portava. 

                                                
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